Questo post si basa su un articolo pubblicato – forse – sulla rivista del Comune di Ancona tra gli anni ’80 e ’90, a firma del generale Massimo Coltrinari, docente universitario e autore di numerosi volumi di storia militare, e tra essi del volume “L’ultima difesa pontificia di Ancona 7-29 settembre 1860”. Nel testo sono inserite le immagini riprese dall’articolo in questione mentre per le immagini in testa all’articolo ringraziamo: Catalogo generale dei Beni Culturali (ai sensi Etichetta “Beni Culturali Standard” BCS) e l’Associazione I sedici forti di Ancona.

La Lanterna

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Costruita all’estremità nord del molo del porto di Ancona, la Lanterna andò distrutta nell’assedio posto dalle truppe piemontesi alla Dorica durante la campagna per l’annessione delle Marche e dell’Umbria al Regno Sardo nel settembre 1860.
Edificata  nel 1784 su  disegno e progetto dell’architetto Carlo Marchionni, per circa ottanta anni caratterizzò il porto di Ancona e di essa rimane solamente il basamento poligonale che la proteggeva dal mare. Su questo basamento è stata eretta la Stazione Sanitaria Marittima che ha sostituito il Lazzaretto nelle sue funzioni.

Fig. 1  Così si presentava la lanterna al momento dell’attacco della flotta Sarda. A questa si appoggiava la catena che chiudeva il porto di Ancona, sorretta da sei pontoni. Contro la Lanterna si lanciò l’attacco della flotta sarda che dalle 13 alle 16 determinò, distruggendo la Lanterna, la resa della piazzaforte papale.

La batteria della Lanterna era al comando del Ten. austriaco West Minsthal così come tutti i cannoni erano austriaci, dono dell’imperatore Francesco Giuseppe al Papa Pio IX.
Il Capitano Gizzi, che già aveva prestato servizio nella Imperial Marina Austriaca, aveva il comando di tutta la difesa marittima, difesa che contava, in totale, comprese le batterie della Lanterna e del Lazzaretto, ventisette bocche di fuoco, di cui sei pezzi nei salienti di S. Agostino e di S. Lucia, tutte del calibro liscio da ventiquattro libbre di peso delle munizioni ad eccezione di quattro che erano del calibro liscio da diciotto.
Iniziato l’assedio da parte della flotta sarda, colpi di mano furono effettuati per far saltare la catena e aprire e rendere agibile il porto. Il 25 settembre all’una e mezzo di notte due barche messe in mare dalla Maria Adelaide, ammiraglia della flotta, tentarono l’impresa. Avvistate dai difensori furono costrette a riprendere il largo. La sera successiva lo stesso Persano organizza una seconda spedizione, ma al pari della prima, non riesce.
Certo, noi posteri avremmo preferito che la Lanterna nella sua struttura originale fosse stata ricostruita. Se ciò fosse stato fatto, oggi il molo nord del porto avrebbe un’altra interessante attrattiva oltre all’Arco Clementino e all’Arco Traiano.
La storia della sua distruzione é breve quanto interessante. L’11 settembre 1860 al momento della dichiarazione di guerra, il porto di Ancona fu chiuso da una catena che andava dalla Lanterna al Lazzaretto, sorretta da sei pontoni; ognuno recante un cannone integrato nella difesa a mare della piazzaforte. Tale difesa era incentrata su due punti fondamentali: la Lanterna appunto sul lato destro e il Lazzaretto sul lato sinistro, questi due poli erano collegati tra loro da una cinta muraria ora scomparsa. Al Lazzaretto era posta una batteria da tre pezzi del calibro liscio da 24 libbre (peso delle munizioni). La Lanterna era organizzata come centro di fuoco (secondo la descrizione che ne fa il Fedecostante nella sua opera “Il contributo della Marina Militare Italiana alla presa di Ancona del settembre 1860”) su tre fronti e su due piani: il piano inferiore era casemattato, quello superiore era in barbetta (struttura difensiva di un cannone o di un pezzo di artiglieria, che consiste in un parapetto o barriera oltre la quale si proietta la volata del cannone).

Fig. 2 Una riproduzione di Ancona vista dal mare a metà del secolo scorso. La Guarnigione contava su circa 4.200 uomini validi, che raggiungeva, secondo la relazione del Gen. Fanti al re il numero di 7.500, comprendendo quelli adibiti ai servizi. La difesa esterna era incentrata sui forti di monte della Croce, di monte Pelago, monte Pulito e nel ridotto Scrima. La difesa interna faceva perno sul forte dei Cappuccini, del Cardeto, della Cittadella, a cui si appoggiava il campo trincerato, su Porta Pia e sul Lazzaretto. Il comandante delle truppe pontificie era il Generale De La Moriciere, giunto ad Ancona nel pomeriggio del 18 settembre, la sera dello scontro di Castelfidardo. Il suo scopo era di resistere il più a lungo, in attesa che la situazione internazionale precipitasse e che l’Austria intervenisse nel conflitto in corso.

Un eventuale insuccesso, oltre a far cadere sulla marina l’accusa di non aver contribuito alla causa nazionale, avrebbe avvantaggiato l’Austria nel caso che decidesse di intervenire nel conflitto in corso. In sostanza troppo rischio rapportato a quello che si otteneva. Solo il comandante del Vittorio Emanuele, Albini, era contrario a queste idee: la marina doveva attaccare e non attendere gli eventi: se l’attacco fosse riuscito, Ancona sarebbe caduta all’istante e la campagna delle Marche si sarebbe risolta quel giorno stesso. Persano valutò attentamente i pro e i contro ed alla fine decise per l’attacco, assumendosi, in prima persona ogni responsabilità, ordinò il forzamento in massa del porto quel giorno stesso.
Quando già i comandanti erano rientrati a bordo delle loro navi e ci si apprestava all’azione, venne ordinato dal Q.G. di mandare urgentemente una fregata a controbattere il fuoco nemico, che stava impegnando seriamente i bersaglieri del Cialdini a Porta Pia, i quali il 27 settembre resero inattivi i tre cannoni posti nel Lazzaretto, fatto questo che privò al momento dell’attacco della flotta sarda la difesa del suo cardine sinistro.

Fig. 3 Disegno di Ancona tratto da una stampa della prima metà dell’ottocento.
Le navi che parteciparono all’assedio di Ancona al comando del Contrammiraglio Carlo Pelion di Persano, erano la Maria Adelaide (38 cannoni; 2.255 cavalli vapore, 600 uomini di equipaggio); la Vittorio Emanuele (52 cannoni, 1.848 HP, 600 uomini); la Carlo Alberto (51 cannoni, 400 HP, 556 uomini); la Costituzione 10 cannoni, 400 HP, 365 uomini, il Governolo (10 cannoni, 80 HP, 81 uomini). Il 18 settembre si aggiunse a questa divisione la fregata a vela S.Michele (42 cannoni, 525 uomini) ed i piroscafi ad elica Dora (2 cannoni, 220 HP, 50 uomini) e Tanaro (2 cannoni, 125 HP, 50 uomini). La Marina Sarda nel 1860 aveva 23 navi in totale compresa la flottiglia del Garda, per un totale di 375 cannoni imbarcati. La divisione che operava davanti Ancona era il meglio che il Regno di Sardegna disponeva nell’agosto-settembre 1860.

Attacco della flotta

La casematta era armata di nove cannoni, lungo le sue tre linee di fuoco, la batteria in barbetta ne allineava tre. Questi piani erano messi in postazione a ridosso della massiccia torre, la Lanterna appunto, che aveva il difetto nel caso fosse stata colpita dal fuoco avversario, di ferire i difensori con le schegge di pietra da essa distaccatesi.Rientrato a bordo della spedizione notturna, il Persano si convince che i colpi di mano non possono essere più attuabili e quindi occorre un attacco in massa, tanto più che il carbone cominciava a scarseggiare e la permanenza della flotta avanti Ancona diviene limitata nel tempo. Il Persano convoca il suo Stato Maggiore e i comandanti delle unità per discutere il da farsi e la mattina del 28 settembre il consiglio si riunisce a Bordo della nave ammiraglia. Aperto tale consiglio, Persano espone il suo pensiero: occorre un attacco diretto, in massa, contro Ancona, per costringere la piazzaforte a cadere, avendo constatato che i colpi di mano sono di difficile attuazione. Invitati tutti i partecipanti ad esporre le proprie idee, i più erano dell’opinione che si dovesse desistere da un attacco frontale per vari motivi; sarebbe stato illogico, in relazione al risultato, usare
l’intera forza della marina sarda dal momento che Ancona era ormai accerchiata dalle truppe di terra ed era facile prevedere che presto sarebbe caduta. Inoltre se una nave avesse riportato una seria avaria, doveva essere affondata in quanto non vi erano, in Adriatico porti amici o neutrali che potessero ricoverarla.

Fig. 4 – Il Basamento della Lanterna come appare oggi. Le fotografie sono state prese dai presenti punti di ancoraggio delle navi piemontesi attaccanti il 28 settembre 1860. La funzione della flotta sarda fu determinante nella giornata del 18 settembre 1860. Le navi sarde sottoposero la Dorica ad un bombardamento efficace facendo credere che fosse il preludio ad uno sbarco in forze. Il comandante pontificio di Ancona fu costretto a mantenere intatta la guarnigione e quindi, non potè intervenire in aiuto alle forze di De La Moriciere che sotto Loreto stavano impegnando le forze sarde. L’origine della sconfitta pontificia a Castelfidardo ha anche questo motivo.

Ottenutala il Vittorio Emanuele punta decisamente la prora sulla catena che chiudeva il porto. A 50 metri da essa, vira di bordo e defilando di fronte alla batteria della Lanterna, vi scaricò contro tutti i suoi pezzi.
L’azione, non comune per quel tempo e contraria alle normali procedure in vigore, ebbe un esito sconvolgente. Il Vittorio Emanuele aveva iniziato di nuovo a virare quando tutta la costruzione della Lanterna saltò in aria in un boato assordante. Il Gen. De La Moriciere, comandante in capo delle forze papali ad Ancona, sostiene che la Lanterna saltò in aria in quanto una palla del Vittorio Emanuele centrò il magazzino delle polveri. Altri sostengono che a seguito della bordata del Vittorio Emanuele, tutti gli artiglieri validi fuggirono dalla casematta abbandonando i loro compagni feriti. Gli ufficiali, non potendo lasciare i molti uomini rimasti feriti nella batteria fecero in modo di costringere i fuggiaschi a rientrare nella casematta ed almeno salvare i compagni feriti. Nella confusione avendo cessato in ogni caso la batteria della Lanterna di essere uno strumento di difesa, il fuoco che divampava ovunque in breve raggiunse il magazzino delle polveri facendo saltare tutto in aria.
Alle ore 13 il Vittorio Emanuele (comandante G.B. Albini), il Governolo (com. Marchese d’Alba), la Costituzione (com. Wright) mossero alla volta del porto. Contro di esse spararono tutti i pezzi della piazzaforte. La difesa aveva intuito, dalle manovre delle navi, che l’attacco generale era stato lanciato. Il vento soffiava da scirocco e andava aumentando di intensità. Il Governolo rispose al fuoco della piazza per primo seguito dal Vittorio Emanuele e dal Costituzione. Il tiro delle navi, concentrato sulla Lanterna fu talmente efficace che in breve tempo la batteria in barbetta della Lanterna era smantellata e gli artiglieri che la servivano dovettero rifugiarsi sulla sottostante casematta. Fanti, che seguiva l’azione da Montagnolo, ritenne opportuno congratularsi con Persano, inviando
un messaggio di felicitazioni a mezzo telegrafo.
La posizione assunta dalle navi attaccanti era felice: la Vittorio Emanuele si era posta a 660 metri dalla Lanterna, mentre il Governolo e la Costituzione si posero a 500 metri, in modo da colpire anche le altre opere di difesa poste sul molo.

Fig. 5 – La fotografia è stata presa a 50 metri da basamento della Lanterna; la stessa distanza assunta dal Vittorio Emanuele durante il suo decisivo attacco contro la difesa a mare del porto di Ancona.

La brevità del tempo intercorso tra la bordata del Vittorio Emanuele e l’esplosione della Lanterna non permette di avvalorare l’una o l’altra versione. In ogni caso l’azione del Vittorio Emanuele fu determinante e decisiva. Quando la polvere si dissolse, si constatò che della Lanterna era rimasto solamente un cumulo di macerie. Crollando la Lanterna crollarono anche i sostegni della catena che chiudeva il porto. Si aprì così una breccia di 50 metri nella cinta fortificata a mare, che non permetteva ad Ancona di resistere oltre.
Terminata l’azione della flotta verso le 16 pomeridiane il De La Moriciere costatò che ogni ulteriore resistenza era vana. Alle 17 la Cittadella alzò il vessillo di resa imitata nel giro di mezzora da tutti gli altri forti.
Stando alla relazione del De La Moriciere ed all’evolversi dei fatti, fu l’azione della marina che decise la resa di Ancona nel settembre del 1860. Azione che condotta arditamente e con perizia, costò alla Dorica un suo monumento caratteristico, l’unico che subì danni irreparabili durante tutto l’assedio del settembre del 1860.
Di esso, come detto, non rimane che il basamento, la parte meno caratteristica.
L’aumentare della forza del vento provocò difficoltà alle navi attaccanti. Ne fu vittima il Vittorio Emanuele che, nell’intento di presentare la fiancata al nemico e sfruttare al massimo la sua artiglieria, fu spinto fuori tiro non avendo saldi ancoraggi. Persano lo rimpiazzò con il Carlo Alberto (comandato dal Cav. Galli della Manitica) mentre ordinava alla Maria Adelaide di tenersi pronta ad entrare in azione.
Intanto la Costituzione e il Governolo continuavano il loro tiro costringendo sempre più sulla difensiva i difensori. La posizione assunta da queste due navi fu possibile in quanto il polo sinistro, ovvero i cannoni posti nel Lazzaretto erano stati resi inattivi. Il Carlo Alberto si portò a 500 metri dalla Lanterna e secondo la descrizione del Fedecostante, che mostra una conoscenza della tecnica marinara molto profonda, “con un pennello da prora e uno da poppa si mise in uno degli angoli morti della batteria e mediante l’alare e l’allascare a vicenda dei suoi tonneggi e tenendo il gran fiocco e la randa in vela si mantenne sempre in posizione”. Verificata con un tiro di prora la distanza voluta, aprì contro la batteria della Lanterna un fuoco rapido e continuo di eccezionale potenza.
L’attacco della flotta stava già dando i suoi frutti. Quasi semidistrutta la batteria della Lanterna, affondati due pontoni che reggevano la catena ed altre quattro imbarcazioni minori.
In questa fase cadeva il comandante della batteria della Lanterna Ten. Westminsthal, che fu sostituito dal Ten. Verbex. Il Vittorio Emanuele intanto recuperava la sua linea. Avendo Persano mandato complimenti per l’azione in corso ai comandanti delle navi che stavano impegnando il nemico, l’Albini, escluso da questo elogio forse punto nel suo orgoglio personale, chiese ed ottenne libertà di manovra.

Gen. Massimo Coltrinari